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Perché un consulente HR, e non solo HR, dovrebbe integrare il proprio know how diventando CHO?

di Cristina Andreoletti – Praxi SPA – e Daniela Di Ciaccio

E’ una domanda che ha una molteplicità di risposte, per cui, ripartiamo dall’inizio.

Chi è il consulente?

Secondo il dizionario Oxford, il consulente è un professionista con un certo livello di expertise e di competenza, chiamato per fornire consigli e pareri esperti ad uno specifico gruppo di persone.

E’ nel DNA del consulente, dunque, non solo la capacità di ascolto e lettura del contesto e dei bisogni che esprime in un dato momento il cliente, quanto soprattutto l’attitudine a scrutare l’orizzonte per intercettare nuovi scenari, salire sulle spalle dei giganti – quindi aggiornarsi costantemente rispetto a tutto ciò che di nuovo, solido ed efficace emerge dal mondo della Scienza e della Ricerca applicata – per discernere e distillare la soluzione più efficace e in grado di sposare la richiesta o l’esigenza espressa dal cliente in maniera univoca ed originale.

Ecco perché in un momento storico e di mercato sfidante come questo, il ruolo del consulente, in particolare nel campo dell’HR management e dello sviluppo organizzativo, diventa cruciale e ha bisogno di allargare i propri contorni di competenza e visione attraverso le informazioni e gli strumenti offerti dalla Scienza della Felicità e delle Organizzazioni Positive.

Sappiamo, ad esempio, che la depressione sarà la seconda causa di malattia invalidante a partire dal 2020, dopo le malattie cardiovascolari (dati OMS).

Non solo: secondo un’indagine inglese, un dipendente infelice costa circa 16.000 sterline l’anno e solo il 13% dei lavoratori si sente nella condizione di rivelare al proprio capo problemi di depressione.

Un consulente con competenze in CHO conosce questi dati e sa che l’impatto sulla forza lavoro di questo trend sarà dirompente, per la maggiore difficoltà a motivare e far sentire ingaggiate queste persone – solo per citare l’effetto più immediato – e che il servizio migliore e più efficace, anche in termini di sostenibilità finanziaria, che può offrire ai propri clienti HR, sarà la possibilità di allargare la loro visione del problema e affrontare la problematica dell’engagement in un’ottica integrata, che supera l’introduzione di pratiche o politiche di welfare specifiche per andare ad integrare altre dimensioni della vita organizzativa capaci di creare il contesto e le condizioni più favorevoli affinché le politiche siano efficaci. Nel caso specifico, ad esempio, fondamentale è il lavoro sulla cultura della fiducia, sulla qualità della relazione, in particolare della leadership, affinché le persone “sentano” e sperimentino la coerenza delle azioni di cura che l’organizzazione adotta nei comportamenti quotidianamente agiti dai capi verso i collaboratori.

Facciamo un altro esempio, sfruttando un tema molto diffuso e sentito: un cliente ci domanda di accompagnarlo ad introdurre lo smart working in azienda.

Dall’indagine di clima fatta recentemente è emerso, infatti, come l’introduzione del lavoro agile sia un bisogno particolarmente sentito in azienda ed inoltre i colleghi del recruiting lamentano di sentirsi fare con sempre maggior frequenza domande sul lavoro flessibile da parte dei candidati per valutare le proposte. I risultati a cui ambisce l’azienda sono, ovviamente, quelli pubblicati dall’Osservatorio del Politecnico di Milano: Smart Worker più̀ soddisfatti dell’organizzazione del lavoro rispetto alla media degli altri lavoratori: 39%, contro il 18% e del rapporto con i colleghi: 40% contro il 23%.

Inoltre, incremento della produttività del 15% per lavoratore e riduzione del 20% del tasso di assenteismo. Il cliente si aspetta quindi di implementare una nuova modalità di lavoro attraverso la quale poter soddisfare i diversi stakeholders: maggior benessere, engagement, motivazione per i lavoratori, miglioramento della produttività, riduzione dell’assenteismo e, nel tempo, dei costi per gli spazi fisici per l’azienda e gli azionisti, diminuzione dell’inquinamento per l’Ambiente.

Un consulente HR con competenze in Chief Happiness Officer sa che non è possibile raccogliere questi frutti attraverso un approccio consulenziale tradizionale e pensare, cioè, di lavorare all’interno di un modello organizzativo “convenzionale” basato su controllo e gerarchia, prevedibilità, informazioni nelle mani di pochi e comportamenti automatici..

Come facciamo a far convivere dichiarazioni quali “all’interno della nostra organizzazione la fiducia nei lavoratori è l’ultimo dei problemi” con dibattiti sulla necessità o preferibilità di escludere, addirittura nelle edizioni pilota – situazione propizia per sperimentare ed eventualmente sbagliare per ritararsi – le giornate di venerdì e lunedì? 

E noi consulenti, come possiamo incidere sulla cultura organizzativa e fare evolvere il sistema di valori e credenze su cui poggia la maggior parte dei leader, riducendo la paura e lo stress che si genera a fronte di trasformazioni e cambiamenti

Anche noi consulenti 4.0 abbiamo bisogno di aggiornarci e di arricchirci di nuovi saperi. Come? 

Diventando CHO si ha la grande opportunità di accedere, in un lasso temporale gestibile, ad un distillato di know-how decisamente autorevole e certificato su quello che oggi le scienze – dalla chimica all’epigenetica, dalla fisica alla biologia alle neuroscienze –  mettono a disposizione per dare nuove visioni, modelli e vantaggi competitivi ai nostri clienti. 

“Stupidità significa fare e rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”

Albert Einstein