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Social Unit. Curopoli: la città della cura

di Cristina Cortesi | Filosofa, manutentrice delle relazioni e care coach. Ideatrice e responsabile di Social Unit – Manutenzione delle relazioni

Chi è Cristina Cortesi?

Potremmo dire in sintesi che sono una moderna Curandera, non tanto nell’accezione sciamanica, bensì nella definizione di “colei che cura chi cura”.
Sono filosofa, formatrice e Coach, ideatrice e project manager di Social Unit – Manutenzione delle relazioni. Ho un’ampia esperienza nei servizi alla persona e nell’housing sociale, esperienza che ho esportato nell’ambito organizzativo aziendale e nel supporto ai lavoratori caregiver. Sono impegnata nel contrasto all’Ageism e promotrice di invecchiamento positivo. Porto avanti pratiche e approcci legati alla Clinica della Formazione e alla Scienza della Felicità, sono Genio Positivo e CHO.

Come nasce il tuo prototipo?

Il progetto si chiama “Curopoli: la città della cura”, la cui prima sperimentazione è stata avviata nel 2007, alla quale ne sono seguite molte che hanno lasciato una traccia fino alla realizzazione di ciò che oggi è Social Unit. 

Curopoli… mai sentita nominare? Strano, eppure si tratta della città che costruiamo quotidianamente, con il nostro operato e attraverso i modelli culturali ed educativi che ci formano e con i quali definiamo la realtà intorno a noi. E’ semplicistico relegare la cura ai contesti socio sanitari, assistenziali o educativi oppure limitarla al Welfare, pubblico o privato. Seppur questi abbiano sempre di più bisogno di “cure intensive” mirate ad occuparsi di coloro che curano, non solo per prevenire il loro burn out, ma per costruire ambienti coerenti e felici anche per loro, non solo per gli assistiti e la ricaduta ampliando il beneficio degli assistiti stessi. La cura è il filo rosso che intesse la trama di tutte le realtà organizzate, dalla cellula famiglia all’organismo azienda, dalla comunità fino alle nazioni, più semplicemente è fondante della vita umana e del prosieguo della stessa. Come definita da Panksepp, psicologo, psicobiologo e ricercatore in neuroscienze, la cura è uno dei 7 sistemi emozionali di base, che poggia sull’amorevolezza, strettamente legato all’ossitocina.

Inoltre possiamo affermare che l’Italia è un Repubblica fondata sul lavoro…di cura. Presenti oltre 7 milioni di caregiver familiari, ai quali si aggiungono i caregiver professionali il cui numero è di gran lunga superiore (operatori, infermieri, medici, educatori…). Così tangibile, al contempo così invisibile ed inconsapevole. 

La felicità, per come noi la intendiamo, e la cura sono quindi profondamente interconnesse e si nutrono reciprocamente. Ambedue necessitano di intenzionalità evolutiva che le conducano al massimo beneficio sociale. E sono al centro dell’operato di un CHO.

Grazie ad un approccio di clinica della formazione è possibile risalire alle fondamenta di Curopoli e, fedeli alla metafora, mapparla e risanarla, farla uscire dagli automatismi di una produzione della cura malsana e tossica, attivando meccanismi virtuosi che immettano nuova linfa e rigenerazione “urbana”.  La trasformazione è effettiva quando si ottiene il passaggio culturale che vede le persone passare da oggetti organizzativi a soggetti organizzativi, portando con sé la cura come intento profuso e come valore, non meramente quale istanza riparatoria o assistenziale, non solo definita nella maternità, seppur in essa ritrova la sua natura quale appunto emozione di base.

Queste sono le basi teoriche di un prototipo che ora viene realizzato in un contesto deputato alla cura, una Residenza socio sanitaria per anziani, con oltre 80 dipendenti, presente in Lombardia. In questa occasione Curopoli è stata scoperta da uno dei membri del CDA, il quale ha coinvolto positivamente gli altri membri nella ricerca di possibili soluzione di gestione. Avevano già raggiunto una notevole consapevolezza riguardo criticità della struttura e la psicologia negativa in atto, in particolare nel management. Dopo aver tentato diversi interventi e ipotizzato soluzioni, si sono sentiti di ricercare all’esterno una professionalità diversa ed un approccio che fosse in sintonia con un valore sentito, ma non ancora realizzato: la pace. Quest’ultima non come assenza di conflitti (il che risulterebbe utopistico) bensì come assenza di aggressività gratuita e dispotica, come lotta alla passività, come competenza alla gestione delle relazioni e dei problemi, come cura e rispetto delle persone, di qualsiasi livello esse siano. Da una prima richiesta di attivare un percorso formativo, inerente la gestione dei conflitti e la facilitazione del lavoro di gruppo, siamo passati ad un’analisi organizzativa che mettesse a fuoco la struttura per come la percepivano gli “altri”, coloro che avrebbero dovuto essere formati e che operano nello staff di gestione e organizzazione.

Quali sono stati gli step di questo progetto?

Quando si mette a fuoco un’organizzazione è necessario decidere se imbracciare un fucile, accendere una tanica di cherosene o prendere una macchina fotografica. 

Se le prime due potevano essere in qualche modo immagini aderenti a vissuti organizzativi, la mia veste invece è stata quella di “fotografa” e intervistatrice. E’ stato essenziale legittimare questo approccio, al fine di essere riconosciuta come portatrice sana di un approccio sereno e dialogico, non di spia che riporta ai capi. Infine è stato realizzato un album di famiglia, il quale non è né brutto né bello, è solo vero, talvolta crudo al contempo foriero di prospettive, utile per iniziare un lavoro di riflessività, rinnovamento ed evoluzione. 

Il lavoro di consulenza si è svolto nell’arco di 3 mesi e ha comportato:

  • 3 incontri con il CDA
  • 4 giornate in struttura per la realizzazione delle interviste (minimo un’ora ciascuna, in alcuni casi un’ora e mezza/2 ore) e tempo dedicato a visitare/respirare l’ambiente
  • 10 persone intervistate: presidente, direttore, staff amministrativo, responsabile sanitario, medici, coordinatore AS/infermieri, animatore. È stata una scelta intenzionale non “toccare” gli operatori, per una doppia motivazione: non creare illusione di cambiamento, non creare uno sfogo alla lamentela, lavorare sulla “testa” per portare cambiamento in tutto il corpo! 

Alcuni temi focali e i modelli mentali sono emersi e le immagini/metafore ci aiutano a coglierli: 

LE MONTAGNE RUSSE: gli intervistati hanno manifestano un forte malessere derivante dalle fluttuazione di umori e di reazione di coloro che li gestiscono, una sorta di imprevedibilità comportamentale e di condotta che conduce ad una costante tensione “non sai mai se difenderti o avere rapporti distesi, allora meglio stare allerta”. Nell’incertezza l’assetto è di attacco – fuga, in una sorta di rassegnazione che prima o poi, a turno, saranno vittime di alterazioni della gestione. Questo produce sfiducia nel team e nel management, un basso engagement e segnali di burn out. La fiducia è ferita, costantemente sanguinante e spesso il sale viene messo sulle ferite. 

LO SCERIFFO: il management ha assunto il ruolo di “lungo braccio della legge” e che si configura assumendo ruoli come “il giustiziere” – in particolare a tutela degli anziani, anche dai parenti stessi – e più spesso “lo sceriffo”, per il quale spesso vengono decisi e agiti interventi, bypassando i ruoli dei colleghi e utilizzando metodi direttivi e punitivi, in una sorta di “giustizia fatta da soli”. La riflessività è bassissima, al reattività immediata e i valori si commutano in idealizzazioni verso le quali avviene una distorsione. Questo vale anche in rapporto agli anziani e ai parenti.

LA GIGANTIFICAZIONE: la pressione psicologica legata all’ansia da prestazione, alla competizione e all’idealizzazione della cura hanno portato a diverse percezioni del carico di lavoro. Seppur non legate ad attività “salvavita”, le persone che si occupano di gestione si sentono schiacciate da tempistiche e prestazioni caricate solo a livello individuale e non distribuite in modo equanime nel gruppo. Le dimensioni TEMPO e GRUPPO non trovano una corretta sintonia. Le scadenze diventano ossessioni e il gruppo viene percepito come antagonista al raggiungimento degli obiettivi, quindi l’autoisolamento garantisce la possibilità dello svolgimento dei compiti e per paradosso è meno faticoso lavorare da soli che con gli altri. Il capitale sociale in questo caso viene vissuto come un ostacolo, non come patrimonio comune. La competenza delle persone viene riconosciuta, ma come dimensione di “possibilità di carico” e non non implementata in tutti. Lo stress percepito e lo stress reale hanno dimensioni discontinue e appunto gigantificate, con una sofferenze tangibile e un sovraccarico che porta a cortocircuiti relazionali e psicologici. Le incompetenze vengono indirettamente premiate e mantenute tali, nonchè alimentata la deresponsabilizzazione a scapito di coloro che sono più preparati e disponibili, i quali garantiscono un operato di alta qualità. Quest’ultimi lamentano ingiustizia e stress, ma restano passivi fino a diventare aggressivi a loro volta. Il circolo vizioso chiude anche loro in una schema automatico che hanno la lucidità di vedere, ma non di spezzare. 

In questo contesto gli operatori vengono definiti “unità” e ad essi viene attribuita una competenza, tecnica e umana bassissima, seppur riconosciuti colonna portante dell’erogazione di cura dell’intera struttura. Nella valutazione riguardante la loro prestazione professionale viene evidenziato che vi sono “furbetti” e “scansafatiche”, che potrebbero dare molto di più, che molti si defilano ed in questo meccanismo di valutazione si alza il livello di controllo e soppressione. Come in moltissime realtà di cura e di assistenza viene esclusivamente  messo al centro “il” più debole, perdendo di vista la fragilità quale connotazione dell’umano e ancor più potente in coloro che sono a servizio degli altri e alimentando la vulnerabilità sociale, riducendo il capitale sociale e la capitalizzazione sociale organizzativa.  Fiducia, ascolto, gestione dei conflitti, fronteggiamento e un dettaglio non da poco: dare voce agli anziani, i quali certamente sono in grado di ben vedere le dinamiche e sentire il clima organizzativo proprio a partire dalle mani di coloro che li cambiano, lavano e nutrono. 

Come la certificazione in CHO e la conoscenza del modello dell’Organizzazione Positiva ha cambiato il tuo approccio alla formazione e alla consulenza?

Mi accorgo che sto rielaborando e maturando, una sorta di “digestione” dei contenuti teorici, delle esperienze  e dei saperi già acquisiti. Lenta ed inesorabile arrivo e gioisco di ciò che scopro. Da una parte valorizzo esperienze passate, per le quali sono orgogliosa di aver avuto approcci da leader positivo; dall’altra comprendo le pericolose chine e l’aver perso la rotta o ecceduto, fino a trovare la negatività, seppur con le migliori intenzioni. Rispetto al bilinguismo e alla ricerca di equilibrio fino a raggiungere una retta via che retta in fondo non lo è davvero mai, ma che resta nel suo proposito coerente ed eternamente perfettibile e soprattutto mai rigida. Provenendo dal mondo del no profit mi accordo di alcune similitudini che legano il CHO all’animatore sociale. Quest’ultimo quale attivatore di processi di comunità e di empowerment. Esce dalla dimensione dell’effimero, del divertissement, dal consumo, passando dal tempo libero al tempo liberato, dalla centralità del fare a quella dell’essere, cedendo il passo all’ego dar voce alla comunità. Abbandona la supremazia del guardare, del mero giudicare, rivoluziona quella del fare, promuove con forza quella dell’ascolto e dell’essere. Passa dalla prevenzione alla promozione. Il vero protagonista non è appunto il CHO/animatore sociale è la comunità, sono le persone.

Come avresti approcciato questo progetto prima di diventare CHO e esperta di ORG+?

In passato sono spesso stata un’interventista, una decisionista e una consigliera, spesso in modalità “salviamo il mondo”. Ho messo a freno e costruito nuovi approcci, privilegiando la costruzione di relazioni e fiducia, di empowerment, utilizzando la formazione come strumento di gestione e di crescita delle organizzazioni e delle persone. Non che prima non lo facessi, ma l’intenzionalità questa volta è stata forte, una sorta di barra per una navigazione differente. Rispetto alla mia posizione di consulente, anche quella ha subito uno sano scossone. Ed è stato un momento per applicare al meglio la positività del genio. Anche qui un mix tra ciò che sono e ciò che ho imparato. Un continuo aggiornamento in itinere. Ritengo di grande valore il confronto con colleghi che fanno parte dell’IIPO. 

Quali sono i risultati che puoi già raccontarci?

“Ma allora quando iniziamo? Quando tornerai?” Con questa frase è terminato uno dei colloqui, enunciata da una dipendente che mi aveva accolto con grande scostanza e freddezza: “Ho solo una mezz’ora e non di più”. Il colloquio è durato oltre un’ora e lei, come altri, erano visibilmente rilassati e sereni, pronti all’idea di mettere mano a quel sistema che criticano, ma che essi stessi producono. Indiscutibile lo scetticismo di alcuni, cautela e timore di altri, sicuramente interesse, curiosità e la necessità di confrontarsi. Il direttore ha posto una domanda chiave: “Ma tu come ci vedi, credi che ce la potremo fare?” che confesso, mi ha commossa. Perché in fondo in quel noi mi sono sentita inclusa. Emerge l’umiltà e la coscienza delle difficoltà in essere, nonché la responsabilità verso il cambiamento. Come CHO sono consapevole della necessità di rispettare il piano evolutivo dell’organizzazione, di non farmi e non dare illusioni, ma a mio parere “il paziente ha ottime possibilità di guarigione”.  Partendo dal presupposto che la felicità è un diritto e che siamo cablati per la socialità, abbiamo tutto ciò che serve per fare un passaggio evolutivo verso una Positive Organization. A febbraio 2020 è stato definito il budget all’interno del quale verranno progettate le prime azioni per quest’anno: primo step sarà somministrazione e condivisione della survey sul modello culturale dell’organizzazione positiva, al fine di passare la macchina fotografica dalle mie mani alle loro. E di iniziare una progettazione condivisa. 

Quali sono i prossimi passi?

La survey sulle quattro dimensioni dell’Organizzazione Positiva (Cultural Transformation, Corporate Happiness, Positive Leadership, Positive Organization) rappresenterà la base dalla quale realizzare la progettazione condivisa e la decisione riguardo ad alcune proposte:

  • Formazione sulla scienza della felicità e delle organizzazioni positive a tutta la compagine organizzativa (esclusi per il momento gli operatori)
  • Formazione sulla comunicazione ecologica, nel quale inserire il gioco e la risata
  • Coaching al direttore, braccio destro e gruppo amministrativo: sono la prima interfaccia verso anziani, familiari e operatori (cliente esterno e interno)
  • Team coaching per la progettazione di pratiche di felicità e pratiche organizzative
  • Valorizzazione delle competenze e mappatura dei ruoli/poteri/compiti
  • Mappatura stile organizzativo e mini laboratorio di comunità
  • Supervisione degli operatori e degli infermieri
  • Celebration GRID. 

Cosa vorresti raccontarci tra un anno?

Vorrei raccontarvi che stiamo entrando nelle seconda annualità di progettazione e di implementazione, che si sono creati gruppi di lavoro e di ideazioni interni, che le persone hanno iniziato ad allenare la felicità e ora la respirano nella quotidianità. E che per questo gli anziani reagiscono con grande positività. Non è Cocoon, ma nella mia esperienza ho visto cambiamenti straordinari nelle persone anziane e negli operatori proprio quando tieni costantemente presente tre aspetti: la cura, la felicità e l’adultità.